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LA NOSTRA INTERVISTA

Stefano Merigliano: «Se formiamo professionisti di qualità, rispondiamo con qualità»

Il Presidente della Scuola di Medicina e Chirurgia dell'Università di Padova: «Per vincere dobbiamo imparare a programmare»

15 Ottobre 2020

L’impatto del Covid-19 sul nostro sistema sanitario ha messo a dura prova il personale medico che, seppur in carenza numerica e con grandi difficoltà, ha risposto a un evento di vaste proporzioni e inaspettato ponendo in risalto la qualità del sistema sanitario, seppur con le rispettive differenze a livello regionale. Se c’è un sistema che su tutti ha dato prova di un elevato livello qualitativo è certamente quello veneto. Ma a tal proposito, quanto è importante la formazione? Qual è il suo ruolo nella definizione del livello qualitativo? Ne abbiamo parlato con il dott. Stefano Merigliano, Presidente della Scuola di Medicina e Chirurgia dell’Università di Padova.

 

Quanto ha influito la formazione sulla gestione dell’emergenza Covid-19?

Il ruolo della formazione è sempre stato fondamentale perché se noi formiamo professionisti di qualità consegniamo al sistema una risposta di qualità. E credo che, e il Veneto ne è una dimostrazione, durante l’emergenza abbiamo dato una risposta ai pazienti e al sistema di qualità. Quindi, questa sfida di avere scuole di qualità è sempre stata vincente. In Veneto abbiamo sempre integrato la ricerca e l’università all’interno del sistema sanitario. Quindi, per noi non c’è differenza tra il professore universitario di Medicina e il primario. Personalmente, mi piace parlare di formazione traslazionale.

 

La qualità però non ha potuto compensare la mancanza di personale…

Un grandissimo difetto dell’Italia è la mancanza di programmazione. Il fatto che saremmo arrivati a una crisi del sistema sanitario nel 2024-2025 era scritto nelle anagrafi e nei sistemi da tempo. O si impara a programmare oppure si rischia di dare una risposta miope in breve, ma perdendo la guerra sul lungo tempo. Sono stato uno dei fautori sull’implementazione del Decreto Calabria, cercando di porre attenzione alla formazione, alla qualità degli specializzandi e alle necessità del sistema. Ma se per motivi politici portiamo gli specializzandi iscritti al primo o secondo anno nei reparti pur di coprire numeri, allora perdiamo la sfida della qualità. Perché i numeri senza la qualità sono inutili.

 

E quale potrebbe essere una soluzione?

Imparare a programmare. Formare come stiamo facendo a Padova, dove gli studenti hanno i laboratori, la frequenza negli ospedali e con gruppi di 60 persone al massimo. E così facendo stiamo dando una risposta di qualità. Diversamente, vogliamo aprire a 3.000 studenti? Risolviamo un problema burocratico, ma non avremmo una sanità di qualità. L’Università di Padova ha aperto due anni fa il corso di medicina in lingua inglese, con altri 60 posti all’anno; quest’anno apriremo il corso di laurea a Treviso con altri 60-65 iscritti all’anno. In tal modo ne formiamo 600, ma senza tralasciare la qualità.

 

Quindi l’eliminazione del numero chiuso non risolverebbe il problema?

Non si può pensare solo oggi, perché ci ritroviamo con l’acqua alla gola, di aprire il numero chiuso e di poter risolvere il problema. Gli specializzandi, per motivi economici, nel corso degli anni sono stati tagliati e questo è un dato di fatto, ma non possiamo pretendere di formarne ora 60.000. Il vero nodo quindi è la programmazione.

 

Ed eventuali soluzioni quali potrebbero essere?

Possiamo rimetterci in pari con un piano pluriennale, e poi facendo investimenti. Quindi dobbiamo chiudere gli organici e garantire la formazione, altrimenti il sistema collassa sul punto principale che è la qualità.

 

Ma la carenza di personale medico è un problema legato anche alla fuga dei giovani all’estero?

Secondo me non ci sono tanti cervelli in fuga, direi che si tratta più di un numero fisiologico di persone che accettano una sfida. Anche alcuni miei allievi vanno all’estero, ma lo considero un arricchimento per loro e per l’Università e il sistema. Ma il 99% degli specializzati che sono passati dalla mia clinica sono ancora qui in Italia. È ovvio che se il mio omologo tedesco guadagna 4 volte netto quello che guadagno io, questo certamente può invogliare, ma non parlerei di fuga all’estero. In più siamo l’unica nazione in Europa che ha rilegato i dirigenti medici a dei semplici impiegati. Anche qui delle grandi riforme dovrebbero puntare a una riduzione della burocrazia, a puntare più sulla sostanza e meno sulla forma. Forse così non perdiamo.

 

Nico Parente

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